La folle realtà del mercato della fauna selvatica

Nonostante una maggiore cultura e attenzione all’ambiente, nonostante una maggiore visibilità sui social, nonostante il TRAFFIC (Trade Records Analysis of Flora and Fauna in Commerce, un network internazionale che, in accordo con il WWF, cerca di controllare e arginare questo fenomeno) e numerose altre associazione e realtà istituzionali che si battono contro questa follia, sono ancora molto numerose le specie che entrano nel mercato della fauna selvatica. Ci entrano a vario titolo, come alimento, come componenti della medicina tradizionale, per l’oggettistica o come animali da compagnia. E forse il fenomeno ha proporzioni maggiori di quanto si credesse, almeno secondo un recente studio pubblicato su Science.

Come molti sanno, il commercio di specie selvatiche, flora o fauna, è regolato dalla Convenzione di Washington, o CITES, che elenca le specie animali e vegetali suddividendole a seconda del grado di minaccia. Purtroppo per molte di esse il commercio continua a rappresentare un grosso rischio in termini di conservazione in natura, perché spesso alimenta il bracconaggio o un prelievo eccessivo dall’ambiente naturale che, per gli animali vivi, è spesso accompagnato da pessime condizioni di trasporto e cura che determinano una percentuale di decessi impressionante (si parla dell’80%, secondo PETA – People for the Ethical Treatment of Animals – e altre fonti).

Le cose non stanno migliorando, se non in sporadici casi. Pensiamo solo al caso più clamoroso, il commercio del corno di rinoceronte usato nella medicina tradizionale cinese. È esploso nell’ultimo decennio, portando a livelli di bracconaggio mai visti prima. Oppure al pangolino, le cui scaglie vengono considerate un vero toccasana per la medicina tradizionale, o ancora all’avorio, alle tridacne giganti per gli acquari prima e per l’oggettistica poi; pesci, rettili, mammiferi e uccelli venduti come animali da compagnia, talvolta a seguito di pratica molto dolorose per l’animale per renderlo inocuo (si pensi all’estrazione dei denti nei piccoli primati del genere Nycticebus o Loris).

Le specie interessate dal fenomeno sono innumerevoli e molte sono ormai prossime all’estinzione proprio a causa del commercio, come nel caso dello storno di Bali, arrivato a essere classificato come “criticamente minacciato” nella Red List della IUCN a causa del suo commercio come animale domestico. Per altre, l’estinzione è già avvenuta: l’estinzione del Rhinoceros sondaicus annamiticus, una sottospecie del rinoceronte di Giava, è stata confermata nel 2012.

Detto tutto questo, è davvero difficile stimare le dimensioni dal mercato della fauna selvatica, perché far emergere dalla clandestinità e dall’illegalità i dati non è per nulla facile. Eppure, è un compito fondamentale per stabilire le strategie di tutela più efficaci. È ciò che ha indagato un nuovo studio condotto da un team di ricercatori statunitensi e del Regno Unito che ha analizzato i database della IUCN (International Union for Conservation of Nature) e della CITES per fornire innanzitutto una valutazione dell’estensione del fenomeno, stabilendo su quali specie si concentri. Quindi, i ricercatori hanno identificato gli hotspot del commercio, identificando anche le differenze nel tipo (se per beni di lusso, animali da compagnia, prodotti medicinali…).

L’analisi è stata condotta su 31.745 specie di vertebrati terrestri, comprendenti uccelli, mammiferi, anfibi e rettili. I risultati hanno mostrato che il commercio interessa oltre 5.000 specie, il 18 per cento circa dei vertebrati terrestri. A stabilire una graduatoria, i più interessati sono gli uccelli e i mammiferi, seguiti dai rettili e infine dagli anfibi. Tali stime alzano le precedenti di una percentuale compresa tra il 40 e il 60 per cento; gli animali interessati dal mercato sono anche quelli delle specie più a rischio, confermando così il commercio come uno dei principali motori dell’estinzione in natura.

Gli autori hanno anche rilevato come il mercato, pur interessando tutti i continenti, trova i suoi epicentri in Sudamerica, nell’area tra l’Africa centrale e quella sud-orientale, nel sud-est asiatico, nell’area himalayana e in Australia. Laddove la biodiversità abbonda, abbonda anche il commercio, con ciascuna area interessata a determinati “prodotti tipici”: Asia, Indonesia, Himalaya e Malesia, ad esempio, sono hotspot del commercio di anfibi e mammiferi, mentre Australia e Madagascar commerciano prevalentemente i rettili.

Anfibi e rettili finiscono nel mercato soprattutto come animali da compagnia, gli uccelli anche come prodotti alimentari, trofei, componenti medicinali, mentre i mammiferi sono prodotti di vario genere.

Man mano che una popolazione diminuisce, il mercato si sposta verso i conspecifici: ad esempio, al declino del pangolino asiatico si affianca un aumento di commercio del pangolino africano. Basandosi sui tratti di somiglianza filogenetica e morfologica e su diversi approcci di valutazione, lo studio offre anche una previsione sulle specie che, pur essendo a oggi scarsamente interessate dal mercato, vi entreranno in futuro. Secondo i ricercatori, si tratta di oltre 3.000 specie, che portano a 8.775 il totale delle specie che presto potrebbero essere a rischio.

Ma di che cifre parliamo? Che indotto genera questo mercato di “carne viva”? I numeri sono impressionanti, probabilmente una ventina di miliardi di dollari all’anno! E facciamo riferimento ai dati 2010-2015, gli ultimi disponibili in forma definitiva!

I principali animali vivi prelevati in natura e commerciati sono i coralli e le tartarughe “da giardino” (Graptemys pseudogeographica). Escluse queste due specie, abbiamo un quadro in cui a dominare sono uccelli (soprattutto pappagalli) e rettili (equamente distribuiti tra serpenti e “lucertole”).

Escludendo le piante, i coralli, le spugne e altri tipi di animali, se quindi ci concentriamo su mammiferi, uccelli, insetti, ragni e pesci (ma solo quelli appartenenti alla classe degli Actinopterygii) abbiamo questo quadro.

Come tutti i commerci più o meno legali, riuscire a tracciare l’origine degli animali è estremamente difficile. Legislazioni favorevoli, commerci illegali che vengono “ripuliti”: spesso il paese di prima esportazione non è lo stesso paese di origine.

Se stabilire l’origine degli animali è estremamente difficile, molto più tracciabile è il traffico una volta che gli animali sono entrati nei database di CITES. Da questo momento i movimenti di animali sono divisi tra paesi esportatori e importatori. È molto importante riuscire a capire la differenza tra paese esportatore e paese di origine, poiché spesso gli esportatori sono i mercati attraverso cui passano gli animali, non quelli da cui sono prelevati o allevati.

Arriviamo così ai mercati di destinazione, ovvero i paesi importatori. Sono essenzialmente i paesi più sviluppati, dove risiedono i privati che si possono permettere i costi (e il mantenimento) di animali esotici.

Una follia, sotto tutti gli aspetti. Prendere coscienza delle dimensioni del fenomeno è sicuramente un primo passo ma battersi perché il massacro finisca è altrettanto necessario.

Tratto e rielaborato dagli articoli di Oggiscienza a firma di Giacomo Destro (21 ottobre 2016) e Anna Romano (09 Ottobre 2019)  

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