Eleonora Martinelli è una fantastica sommelier che ama viaggiare alla scoperta di nuovi sapori; è anche appassionata animaltripper e ci scrive questo coinvolgente racconto sui suoi incontri coi cetacei. Gustatevelo.
“Chiamami Ismaele. Alcuni mesi fa, lasciamo perdere precisamente quanti, pensai di fare vela qua e là per un po’ e andarmene a vederela parte acquea del mondo. […] Sommo fra i motivi stava la travolgente idea della grande balena stessa.”
D’accordo, forse è banale. Ma non potevo che iniziarlo così, con le parole del vecchio Melville e dell’incipit del suo Moby Dick, questo mio racconto che ha per protagonista Lui: il Capodoglio.
D’altro canto è stato per merito suo che mi son trovata, nel settembre della scorsa estate, a bordo di un gommone e nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, insaccata in un giubbotto salvagente urlando “SPERMWHALEEEE” con il cuore che batteva a mille. Ma che dico mille, quattromila come minimo. Poco ci è mancato che finissi in acqua in preda all’entusiasmo.
Accadde infatti che nella primavera dello stesso anno stessi leggendo Moby Dick e che all’interno del romanzo mi imbattei, da qualche parte e davvero per poche righe, nelle Azzorre. Quel nome mi rimase come attaccato con una puntina da qualche parte nel cervello perché un giorno, mentre stavo facendo tutt’altro, il mio inconscio me lo ripropose come un peperone non digerito e non potei fare più nulla se non aspettare il primo momento libero per mettermi a cercare informazioni su quel posto che mi risuonava nel cerebro.
Perché mica lo si sa bene dove sono di preciso, le Azzorre. Iniziamo da qui: sono nove isole proprio nel centro dell’Oceano, 1’300 km al largo del Portogallo ( di cui sono regione autonoma) e quasi a 2’000 km dal Canada, googolandole un po’ i primi dati che si ricavano sono entusiasmanti: ci sono più mucche che esseri umani che le abitano – oooh! – e i due terzi dei capodogli del mondo passa di lì durante le rotte migratorie – doppio oooh! Dopo sette minuti che avevo letto queste due informazioni avevo già trovato il volo e sottoposto la questione al mio compagno. Le nostre future vacanze erano state decise.
In ogni caso stavo dicendo che mica si sa bene dove siano, le Azzorre. Nei mesi a seguire, ogni qualvolta le nominassi, mi sentii rispondere cose del tipo: “Wow, ho sempre sognato anche io di andare ai caraibi” (?) oppure “Ah, che meraviglia quelle spiagge bianchissime” o peggio ancora “So che ci sono dei villaggi bellissimi, c’è stato mio cugino. Credo”.
Ecco, le Azzorre non sono nulla di tutto questo. Per fortuna loro e nostra che ci siamo stati. Innanzitutto non sono ai Caraibi, e su questo siamo d’accordo. Poi le spiagge alle Azzorre non è che non siano bianchissime: è che proprio non esistono, fatto salvo per qualche rara eccezione (non si arriva a dieci sommando quelle di tutte le isole) qua e là, solitamente vicino ai porti. Villaggi idem come sopra, almeno io nelle quattro isole visitate non ne ho visto neanche l’ombra.
Le Azzorre sono isole vulcaniche battute da un clima Atlantico che fa sì che, come dice il detto locale, ogni giorno si vivano tutte e quattro le stagioni: il clima cambia rapidissimo e la norma è che piova un paio di volte durante il corso della giornata, fra un’uscita del sole su di un cielo azzurrissimo e una nebbia da foresta pluviale.
Appaiono scorbutiche ma bellissime come i loro abitanti, anarchici del mare con gli occhi socchiusi e incorniciati da rughe scolpite dal sole e dal sale. Proprio come uno si immagina i vecchi lupi di mare.
Di queste nove isole, cinque costituiscono il nucleo centrale e di questo nucleo due sono le più indicate per avvistare gli affascinanti macrocefali testoni sottomarini che rispondono al nome di Capodogli o Spermwhale o, meglio ancora di Cachalotes: le isole Pico e Fajal.
Proprio dal porto di Horta (dell’isola di Fajal) partimmo quella mattina per la nostra escursione. Al porto si trovano svariate casette in legno abbastanza freakkettone, di diverse compagnie che organizzano Whale Watching con differenti modalità: dalle vere e proprie imbarcazioni a due piani ai più spartani gommoni. Va da sé che noi abbiamo optato per la seconda modalità (salvo poi pentirsene il mio compagno, che durante gli avvistamenti avrebbe potuto ispirare un romanzo dal titolo “cinquanta sfumature di grigio-verde”, solo guardandolo in faccia), molto più on the road o, meglio, on the sea.
L’uscita è durata circa un paio d’ore, credo. Dico credo perché l’adrenalina di quel giorno mi diede prova concreta della relatività del tempo teorizzata da quel simpatico baffone di Einstein: per me il tempo è davvero volato e a ripensarci mi sembra essersi svolto in tutto pochi minuti (se chiedete al mio compagno, quello grigio-verde di cui sopra, scommetto vi dirà esattamente il contrario e di nuovo son punti per il vecchio Albert).
Il gommone ci portò a parecchi chilometri dalla costa, in un punto a metà fra l’isola di Fajal e quella di Pico, un luogo dove vivono svariati esemplari di Cachalotes in maniera stabile: si tratta di mamme coi loro piccoli che a differenza dei maschi adulti non sono solite intraprendere le grandi rotte migratorie e risultano abbastanza stanziali, almeno nel periodo della gravidanza e nei primi anni della maternità.
Quei simpatici testoni sanno benissimo che ci sono degli strambi esserini che si avventurano in mare aperto sperando di incontrarli e non mancano di farsi desiderare, quei furbastri. Hanno anche le loro ragioni, voglio dire. Fino agli anni ottanta la caccia al capodoglio era pratica diffusa. Il perché è presto rivelato nel suo nome: capo d’olio. Nel loro immenso capoccione è contenuto un liquido ai tempi preziosissimo poiché il principale combustibile utilizzato per le lampade e i lampioni e la sua estrazione era attività estremamente redditizia. Dagli anni ottanta in poi le Azzorre si sono convertite al turismo sostenibile e hanno fatto dei cetacei motivo di tutela dell’ambiente acquatico e oggetto di avvistamenti non invasivi.
Ma vi stavo dicendo che quei testoni si fanno desiderare. E così fu durante la nostra escursione, dove per tutta la prima ora non vedemmo neanche lontanamente lo sbuffo di uno di quei simpatici enormi mammiferi. A riempire di gioia quel tempo però ci pensarono gli Urrà Urrà, i delfini. Sempre in Moby Dick il buon Melville spiega come il soprannome fosse dovuto alla loro micidiale vivacità che da secoli li porta ad avvicinarsi alle navi per piroettare ai loro fianchi sulle onde da queste create. Successe anche noi, con il nostro buon gommone: branchi di delfini comuni e di delfini “naso a bottiglia” ci accerchiavano a velocità pazzesche e giocavano con le nostre onde. Era buffo sentire gli urletti d’eccitazione che noi poveri improvvisati marinai emettevamo all’unisono quando ne sbucava fuori uno, apripista di altri soci di scorribanda che subito accorrevano a tutta birra.
Poi è arrivato. L’urlo della nostra guida è arrivato: “SPERMWHALEEE!!!”. Ed ecco che tutti ci siamo girati di scatto di qui, di lì, di là, ma dove?, dov’è?!
E l’ho visto. Il mio primo, pazzesco, sboffo di capodoglio. Che mica lo puoi confondere con lo sboffo di qualcun altro, no signori. Lo sboffo del capodoglio è l’unico che non spara in verticale, ma in diagonale davanti a sé. Non puoi avere dubbi, davanti ad uno sboffo simile. Ragazzi, avevo il cuore a mille e non stavo più nella pelle. Mi sarei buttata in acqua. Emozione quadruplicata dal fatto che erano non uno, ma quattro appunto: una femmina adulta e tre “piccoli”.
Funziona così, quando ne avvistate uno. Quello sboffa una volta, poi al massimo un altro paio, quindi tira su la sua bella coda da capodoglio e vi saluta. Per altri venti minuti si immerge e vai a sapere poi dove risbucherà, quella vecchia sagoma. Quindi vedi lo sbuffo e, se armato di fotocamera, fai partire una serie di scatti a caso, rullando fra un’onda di due metri e l’altra, godendo di quello spettacolo incredibile che stai vivendo e sperando che la macchina e la Dea Fortuna abbiano fatto il resto.
E io ho avuto quella fortuna lì. Al secondo avvistamento ho sparato una raffica pazzesca di scatti barcollando come un’ubriaca a fine serata sul mio bel gommone. E l’ho beccato. In pieno. Si può dire? Un colpo di culo pazzesco. Ma quel momento, proprio quello lì, in cui ho realizzato di aver preso in pieno la coda di uno dei miei cetacei preferiti, beh ragazzi, quello sì che è un momento che mi porterò dietro finché campo.Così come mi porterò dietro le Azzorre nel loro insieme, le loro mille varianti di blu, il loro odore salmastro e selvatico, le sope do dia (zuppe del giorno) che potete mangiare ovunque a niente e la bellezza di un posto risparmiato dal turismo di massa, troppo lontano dalla terraferma per avere bisogno di importare il peggio della società consumistica occidentale, pieno di mucche ovunque che vi fisseranno con quel loro distaccato e a tratti supponente fare da ruminanti. Un posto per cui riesci a provare nostalgia quando ancora non sei partito (sarà la famosa saudade?) e in cui non vedi l’ora, una volta a casa, di tornare.
Un posto in cui si producono anche vini bianchi unici, che ho avuto la fortuna di vendemmiare coi piedi al suono di un’improvvisata e un po’ sgangherata orchestrina locale, roba da fare invidia a Celentano. E che ho bevuto senza tirarmi indietro.
Perché comunque, dovunque vada, resto di fondo una sommelier (sbevazzona) appassionata di cetacei, che ogni tanto fa leva qua e là “dietro la grande idea della balena stessa”.
Da non perdere: Il Bar Peter Sport
Una volta punto imprescindibile di approdo per chi traversava l’oceano e per le navi baleniere, oggi il Peter Sport dell’isola di Fajal è il luogo di ritrovo di velisti, turisti e appassionati di mare. Fermatevi per una birra e una sopa do dia, i prezzi sono davvero irrisori e l’atmosfera è “pazzescamente” cosmopolita e marinara.
Gita consigliata: la Caldeira
Sempre a Fajal, partendo dal porto, potete noleggiare delle biciclette e farvi portare da un taxi (sì, vi caricano sopra le biciclette) in cima alla Caldeira del vulcano principale. Una volta arrivati posteggiate e lucchettate le biciclette e godetevi il giro della caldeira (8 km con pochissimo dislivello), da cui godrete di un panorama a 360° sull’isola stessa e su quelle vicine, Riscendete poi a tutta birra per i venti chilometri che vi riporteranno al porto, tutti in discesa.
Il vino che sa di vulcani
I vini Azzorrani hanno un pregio incredibile: intanto sono pochi e poi sono fedeli. Fedeli a quella terra dove nascono e di cui riescono perfettamente a raccontare sapidità dell’aria e mineralità del terreno. L’isola dove se ne produce di più è Pico, quello dove ho trovato i più emozionanti, Terceiera. Se capitate in quest’ultima la prima settimana di settembre (più precisamente a Biscoitos), potreste avere la fortuna di capitare nella festa della vendemmia, insieme a poche altre decine di persone (una cinquantina in tutto?) a pigiare vino coi piedi e a banchettare poi in giardino a ritmo di musica locale, baccalà, fave, polpette di mais e vino a volontà.
Questo racconto è dedicato ad una persona fantastica, che ora non c’è più. Il più grande appassionato di capodogli che abbia mai conosciuto e che il giorno in cui li vidi lì, a pochi metri da me nel mare, sentii per messaggio. Ci tenevo a farglielo sapere. Sapete, non ci conoscevamo molto, ma era una di quelle persone pazzesche che sono felici se gli altri gli raccontano una cosa bellissima che gli è capitata. Capite cosa intendo dire? Era contento di sentirvi contenti di una cosa che sarebbe piaciuta fare anche a lui. Una bella persona. “Madonna che invidia! Ma a che distanza? Quando torni mi devi raccontare tutto.”
Ti ho mandato una cartolina che ti fece un sacco piacere, ma devi perdonarmi il ritardo di questo racconto, grande Cajo. “Abbracci speramacetici”, proprio come ci scrivemmo quella volta.
Eleonora Martinelli per Diari di Viaggio
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beh che dire? ven proprio voglia di partire! continua a raccontarci dei tuoi viaggi, anche se brevi nel tempo e a latitudini più vicine. Un abbraccio da Bob e Saida
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