Forse ha ragione Paolo Cognetti quando nelle Otto montagne sostiene che chi ama la montagna, chi ama viverla visceralmente, sente come propria una quota, soltanto una: “Forse è vero, come sosteneva mia madre, che ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene. La sua era senz’altro il bosco dei 1500 metri, quello di abeti e larici, alla cui ombra crescono il mirtillo, il ginepro e il rododendro, e si nascondono i caprioli. Io ero più attratto dalla montagna che viene dopo: prateria alpina, torrenti, torbiere, erbe d’alta quota, bestie al pascolo. Ancora più in alto la vegetazione scompare, la neve copre ogni cosa fino all’inizio dell’estate e il colore prevalente è il grigio della roccia, venato dal quarzo e intarsiato dal giallo dei licheni. Lì cominciava il mondo di mio padre. Dopo tre ore di cammino i prati e i boschi lasciavano il posto alle pietraie, ai laghetti nascosti nelle conche glaciali, ai canaloni solcati dalle slavine, alle sorgenti di acqua gelida. La montagna si trasformava in un luogo più aspro, inospitale e puro: lassù lui diventava felice. Ringiovaniva, forse, tornando ad altre montagne e altri tempi. Anche il suo passo sembrava perdere peso e ritrovare un’agilità perduta”.
Se è così, amare una determinata quota significa viverla intimamente nei suoi paesaggi, nei suoi animali e nelle sue essenze arboree, sentire di trovarsi finalmente al proprio posto. Capita insomma di sentire vicino a sé, di sentire affine a sé, un animale in particolare o un albero.
È questione di sensibilità, quella sensibilità che troviamo nei grandi scrittori di montagna, per quanto ci riguarda soprattutto nel maestro Mario Rigoni Stern, di cui amiamo naturalmente i grandi classici – Il sergente nella neve, Quota Albania – ma soprattutto i racconti di animali e di piante, come quelli di Arboreto salvatico (“salvatico” non è una semplice ripresa del termine in uso nell’italiano antico derivante da “silvaticus”, ossia rigoglioso, ricoperto di selve, ma potrebbe rimandare a salus, salvezza, qualcosa che porta salvezza).
Proprio a Rigoni Stern ci affidiamo per ricordare alcune piante delle nostre montagne (e gli animali che le frequentano) delle quali conserviamo ricordi particolarmente cari.

Larici si alternano a rododendri alpini in Val Vigezzo, nell’incantevole scenario che incornicia la Pioda di Crana (foto di Ivan Vania)
Non possiamo che iniziare con il larice (Larix decidua), primo anche in Arboreto salvatico. Generalmente diritto e slanciato, “con gli strobili a forma di piccole uova brune che quando si aprono lasciano cadere i semi, ognuno unito a una piccola ala lunga poco più di un centimetro, di cui sono ghiottissimi lucherini e fringuelli”. Il larice, tipicamente alpino, si spinge oltre i 2500 metri. Come Mario Rigoni Stern, anche noi amiamo gli esemplari più vecchi, sofferti, che sembrano portare su di sé il peso degli anni vissuti e della montagna stessa. “Ma i larici che personalmente ammiro e fors’anche venero, sono quelli che nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono lì nei secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre, a ogni primavera, quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli. E all’autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d’oro le pareti”. Ne ricordiamo in particolare alcuni vetusti nelle valli ossolane, sentinelle di un tempo passato, che hanno vegliato su di noi pellegrini indicandoci la via.
Poi il peccio, o abete rosso (Picea excelsa), spesso rifugio per vari uccelli, come nel brolo (giardino) dello scrittore di Asiago dove “vennero i fringuelli a fare i nidi (che regolarmente alla schiusa le cornacchie distruggevano) e i tordi e le cesene”. Il peccio è “l’albero per eccellenza delle nostre foreste alpine, e da lui hanno tratto da vivere tante famiglie di montanari”. La foresta pura di peccio è uniforme, cupa, qualche volta priva di sottobosco o con sottobosco povero.

Una cesena nutre un pullo tra i rami di un larice in Valnontey (foto di Ale.Zoc)
L’abete bianco (Abies alba), invece, anch’esso maestoso – può raggiungere i 50 metri – ha un colore verde con riflessi d’argento, è (o era) l’albero di Natale per eccellenza. Nonostante la sua eleganza, raramente emana la stessa idea di forza del larice. Molto diverso il cirmolo (Pinus cembra), “tra gli alberi delle nostre alpi, con il larice, il più bello, non raggiunge l’altezza dell’abete o del peccio, ma può arrivare oltre i 700 anni di vita. Dove i fulmini, le valanghe, i sassi feriscono il tronco, assume forme tormentate e inconfondibili e lassù, tra i 1500 e i 2500 metri di quota, tra nevai, rocce e ghiacciai è vedetta arborea della natura”. Di lentissimo accrescimento, con rami forti e irregolari, con la sua corteggia fortemente fessurata sul tronco porta disegni imprevedibili.

Una splendida volpe in una faggeta vetusta alle pendici del Monte Meta in Abruzzo (foto di Ale.Zoc)
Impossibile per noi non citare il faggio (Fagus silvatica), lo ammettiamo, forse a noi il più caro. Sempre, in tutte le stagioni, ma soprattutto “in autunno, nella sua stagione, quando il giallo rosso squillante rallegra la selva. Le sue radici forti avvolgono i sassi, penetrano tra gli interstizi della roccia, si sprofondano a cercare la vita dove il tempo ha fatto l’humus con l’aiuto delle specie pioniere, con la sua corteccia grigia chiara, sovente chiazzata di licheni biancastri e, verso il pedale, da muschi dal verde intenso”. Il faggio nei nostri boschi occupa un posto speciale, con le sue ampie ceppaie: sembra offrirci conforto quando faticosamente saliamo verso l’alto, ci dona nei fortunati giorni d’autunno giovani porcini bianchi e sanissimi – Boletus edulis – i nostri preferiti.
Il frassino (Fraxinus excelsior) un tempo non mancava mai vicino alle case di montagne. Tordi e cesena vi si affollavano, cibandosi dei suoi frutti e distribuendone i semi. Lento a crescere, lento ad allargare i suoi rami dalle tipiche foglie. Per i greci era un “albero felice”, per i popoli del Nord Europa è lo Yggdrasill, l’albero del destino che sorregge l’universo e i cui rami si espandono su tutta la terra. Anche per noi è un albero amico, spesso cerchiamo in estate l’ombra delle sue foglie, ad alcuni vecchi frassini annidati tra le rocce dopo il Lago della Fate, in Val Quarazza, non neghiamo mai un saluto nei giorni d’agosto.

Una giovane betulla domina un’area aperta (foto di Ale.Zoc)
Diversa da tutti gli altri alberi da fusto, inconfondibile, è la betulla. “Da ragazzo – racconta Mario Rigoni Stern – nel mondo vegetale, non erano le betulle ad attirare la mia attenzione, i larici e i grandi abeti erano gli alberi che mi affascinavano […]. Delle betulle non capivo la bellezza”. Da noi la betulla è albero solitario e, talvolta, in piccoli gruppi forma allegre macchie chiare nei boschi misti, ma è impossibile restare indifferenti al suo fascino ambiguo, a quel candore che sembra sintomo di fragilità ma che in realtà non lo è.
Molti altri se ne potrebbero citare – per noi amanti dell’avifauna il sorbo dell’uccellatore (Sorbus aucuparia) è un compagno fedele di osservazioni, ad esempio – ma forse converrebbe maggiormente riflettere sul perché “sempre più ardua sia diventata la vita degli alberi, ora che gli uomini si manifestano insensibili verso il mondo vegetale”. Siamo sempre più concentrati su di noi, egoisticamente, e perdiamo di vista l’essenziale, ciò che è fuori. Rileggiamo Mario Rigoni Stern, rivalutiamone la straordinaria attualità, e lasciamo che le sue parole ci siano da guida.
Prof. Gip. Barbatus
