“Viaggiare in silenzio, solo per sé stessi, a volte dentro sé stessi, senza nessuno scopo se non quello di avanzare”, questo il senso dell’esistenza per i nomadi anche nel XXI secolo. Tessere il proprio destino semplicemente procedendo, appartenere solamente alla strada che si percorre. Un tempo venivano chiamati monaci-mendicanti, trovatori, viaggiatori, hobos o beatnik, eremiti delle taighe, long raiders, esploratori dei boschi, vagabondi, Wanderer o Waldgänger e in mille altri modi a seconda del Paese e dell’epoca. Ecco, Sylvain Tesson è uno di loro, uno degli ultimi, se non l’ultimo, di questa specie antica quanto il mondo e sempre in conflitto con il mondo.

Come loro, non sopporta che il sole al suo sorgere parta senza di lui, come loro oppone archetipicamente il nomadismo del pastore alla predominante stanzialità dell’agricoltore. In un mondo iperconnesso, globalizzato e quindi inevitabilmente omologato e omologante, Tesson è l’eccezione: si lascia trascinare per il mondo senza uno scopo pratico, sa che il viaggio è l’unico modo di arrestare il tempo, di invecchiare vivendo senza l’oscura inquietudine di non poterlo dominare. Al nomade non interessa il tempo, lo riempie ostinatamente con i chilometri che miete passo dopo passo, senza fretta: diminuendo la velocità, rallenterà anche il tempo a sua volta. Cosa c’è oggi di più rivoluzionario della lentezza? Cosa c’è oggi di più rivoluzionario del godere della fatica del cammino? Di cercare terra incognitae in un mondo apparentemente sempre più piccolo e soffocante?
Noi adoriamo Sylvain Tesson, lo veneriamo come un dio pagano, che beva vodka in una capanna sul Lago Bajkal o cerchi il leopardo delle nevi in Tibet con Vincent Munier, il suo verbo è per noi portatore di verità, di autenticità. Per ben vagabondare – ci insegna il maestro francese nel suo bellissimo Piccolo trattato sull’immensità del mondo (recentemente riedito da Piano B edizioni) – servono poche cose: un terreno propizio e il giusto stato d’animo, un misto di buon umore e disprezzo per l’ordine costituito e -aggiungiamo noi – un minimo di coraggio e orgoglio.

Quindi? Partire, “meravigliarsi della bellezza di un lichene, dell’ingegnosità dell’argiope, del canto di un uccello, recitare poesie nelle ore vane (declamare Péguy nell’infinita pianura, Hugo nella palude, Apollinaire sulle alture, Shakespeare nella tempesta, Norge quando si è ubriachi), scandire versetti fino all’ossessione. Partire, afferrare ciò che si può, cercare la meraviglia fuori di sé e… vivere.
Prof. Gip. Barbatus
