Anche quest’anno è arrivato uno dei momenti che tutti gli animaltripper aspettano con ansia: il periodo degli amori dei cervi, il bramito.

Monitorando i vari social di parchi e fotografi naturalisti decidiamo che i primi giorni di ottobre sono buoni e puntiamo questa volta verso la Riserva Naturale del Lago di Piano in Val di Menaggio (Como). Questo piccolo, delizioso lago posizionato tra quello di Como e quello di Lugano porge un fianco ai boschi del Monte Galbiga da dove scendono a valle i cervi nella stagione degli amori, nostro target dell’escursione.
Si parte presto (ma nemmeno troppo) per essere sul posto quando la luce è sufficiente e gli ungulati sono nel pieno della loro bramosia amorosa. L’idea iniziale era quella di fare dall’alba al tramonto ma, con sfortunato tempismo, moglie e bimbi di uno dei miei compagni di viaggio si sono svegliati con la febbre quindi, per non minare un matrimonio, si decide, durante il tragitto di tornare prima, nel pomeriggio. Tradotto: ci giocheremo tutto in mattinata perché sappiamo che gli animali faranno la loro “siesta” nelle ore più calde del giorno e sarà ancora più difficile avvistarli.
Parcheggiamo l’auto poco prima delle sette nei pressi del campeggio del lago; già da lì, prima di imboccare il sentiero, risuonano nell’aria ancora fresca i versi potenti dei maschi.
Attraversano il lago, cupi, imponenti, atavici. Ci agitiamo, entusiasti acceleriamo il passo.
Il sentiero ad anello (due ore abbondanti senza pause) costeggia il lago per poi, a tratti, allontanarsi di poco verso i boschi e ritornare nuovamente a costeggiare le sponde; li sentiamo sempre più vicini. Nei giorni precedenti guardando Google Maps abbiamo identificato un paio di zone aperte che potrebbero essere il palcoscenico ideale per questa lotta a suon di vocalizzi. Puntiamo verso il primo, la zona degli antichi mulini. I versi sono sempre più fragorosi; procediamo a passo spedito, tendiamo le orecchie, volgiamo lo sguardo ad ogni prato che si alterna ad alberi, canne e zone umide. Per la prima parte del tragitto non incrociamo nulla, li udiamo ma non li vediamo. Non è la prima volta che affrontiamo questo tipo di esperienza, sappiamo perfettamente che la cosa più saggia sarebbe sedersi e aspettare con pazienza nei pressi di un campo aperto ma questa volta, come novizi, veniamo presi da troppa adrenalina e continuiamo a camminare verso questi suoni baritonali come falene verso i lampioni.
Siamo in tre, non siamo né ninja né sioux ma ci muoviamo ad ogni modo abbastanza silenziosi, li sentiamo, sì eccome, ma non li vediamo o meglio non si fanno vedere.

Finalmente in una zona boschiva al limitare di un canneto intravediamo tra le foglie un gruppo di femmine coi piccoli che si avviano verso una piccola radura; sono una ventina. Si muovono in fila, i giovani dietro le madri che controllano la zona. Rimaniamo immobili senza nemmeno accovacciarci protetti da fogliame e arbusti. Li perdiamo di vista dopo qualche minuto. Risuona ancora, più avanti, potente, quasi ci colpisse al petto, è terribilmente affascinante ma è anche lievemente inquietante, il tipico suono che non vorresti mai sentire di notte dopo che ti sei perso lasciando la strada, inoltrandoti nella brughiera (citazione cinematografica).

Ci rimettiamo in marcia con passo spedito in preda ad una strana frenesia. Eccolo di nuovo. “Eh no questa volta è vicino, troppo vicino per non vederlo”. Fermi in questo sentiero decisamente fiabesco circondato da rocce ricolme di muschio e rigagnoli che scendono a valle rimaniamo in attesa. Indichiamo il punto da cui siamo certi sia venuto, poco sopra di noi, salendo verso la montagna. Non scorgiamo nulla ma pochi istanti dopo ecco, più in là rotolare a valle due grosse pietre; lo individuo, o meglio noto due enormi palchi sbucare tra gli arbusti. Lui ci ha già avvistati ma non fugge subito, non ci valuta una grossa minaccia pare, siamo ancora troppo distanti e molto sotto di lui, ci lascia il tempo di assaporare fugacemente la sua silhouette imponente tra le foglie poi si gira e, con passo tranquillo, dopo averci mostrato il culo, sparisce oltre il crinale.
Proseguiamo. Il sentiero si affaccia direttamente sul lago. Un airone cenerino appollaiato, qualche svasso a filo d’acqua, un bel pontile. Dall’altra sponda eccoli nuovamente, maestosi, vigorosi. La vegetazione ci nega lo spettacolo però.
Il sole a questo punto sta già cominciando a scaldare e a diradare i pochi scampoli di nebbia del mattino.
Costeggiamo un grande prato con in lontananza, sotto un albero, un giovane, regale maschio che punta verso il bosco. Mi da il tempo questa volta di scattare due foto.

Il percorso si infila tra dei caseggiati e delle aziende agricole, cominciamo a incrociare qualche persona a passeggio col cane (alcuni ahimè senza guinzaglio) e qualche turista mattiniero.
Ci sale la fregola nuovamente, “se c’è gente in giro, vuol dire che si sta facendo tardi”. Il sentiero comincia a salire, torniamo in zone più boschive, cerchiamo di capire come arrivare in quello spazio aperto al di là del canneto da dove provengono i richiami ma la via segnata non ci aiuta.
Le regole della Riserva sono chiare: non lasciare il sentiero.
Saliamo ancora, i cervi bramiscono a più non posso ma il percorso continua verso l’alto e ci allontaniamo da loro.
Un bivio, scegliamo la pista più piccola che volge a destra, verso di loro. Cinquanta metri dopo c’è una piccola radura e il sentiero va a perdersi lievemente ma inesorabilmente, abbiamo certamente sbagliato.
“Dai aspetta un attimo proviamo ad affacciarci là prima di tornare”. Spostiamo due rami zeppi di foglie. Sotto di noi la montagna scende ripida ma, anche se distante, appare il lago e prima di lui il famoso prato. Tiriamo fuori i binocoli. “Niente, niente niente… eccoli!”. Accovacciate nell’erba stanno una trentina di femmine coi piccoli, stupende, tranquille. Si avvicina un maschio.

Dal gruppo di femmine si alza un secondo cervo, peserà duecento chili, solo la sua presenza mette in fuga il contendente che corre lontano per poi posizionarsi a distanza e ricominciare a bramire nella speranza di incuriosire l’harem.

Nulla di fatto purtroppo per lui, il maschio dominante lancia il suo verso che lo sovrasta per intensità e irruenza; sicuro, grezzo ma quasi sensuale, tutte le femmine rimangono intorno a lui che ora osserva senza troppa ansia il contendente già rassegnato.

Li osservo attraverso l’obbiettivo della reflex, troppo lontani per una bella foto, ma abbastanza nitidi nella luce del mattino per provocarmi un brivido di emozione.
Guardo sotto di me. La foto dei sogni, quella che anelo da settimane è a un centinaio di metri più in basso.
E’ ripido ma nulla di impossibile o rischioso, ci sono ben segnati i sentieri tracciati dagli animali. In pochi minuti potrei essere giù, al limitare del bosco ed avere una visuale fotografica decisamente più avvincente. Nessun guardaparco nei paraggi, farei con cautela, non disturberei.
Le cerve tranquille, il maschio enorme che alza il muso col collo teso a bramire, il canneto infuocato dal sole e il lago brillante dietro di lui. Esattamente la foto che vado cercando. Non vedo l’ora.
Non allontanarsi dal sentiero, non allontanarsi dal sentiero. “Non faccio male a nessuno” mi dico ma le regole del parco non sono fatte per guastare le feste a noi amanti della natura ma per non guastare le feste proprio alla natura. E’ una zona con forte affluenza turistica, gli equilibri sono già fragili abbastanza così, non voglio rischiare di incrinarli proprio io. Desisto dai miei sogni di gloria fotografici, è giusto così.
“Torniamo sul sentiero principale” convengono i miei compari. “Andate, vi raggiungo, datemi cinque minuti per qualche altro scatto”.
Rimango ancora appoggiato ad un tronco a godermi il panorama e forse, chissà, il bosco premia la mia scelta di discrezione con un fugace ma ravvicinato incontro.

Una volpe viene verso di me. Si avvicina, non mi vede, io sono immobile ma non ho certo il dono dell’invisibilità. E’ giovane e inesperta probabilmente, distratta tra gli odori del bosco. E’ ormai molto vicina quando “qualcosa non le torna”. Si ferma ad annusare l’aria. Mi da il tempo di una foto. Muove le orecchie verso di me, ancora non mi vede, alcune piante che si frappongono tra noi. No, qualcosa proprio non le torna, accelera repentinamente l’andatura passando comunque – bellissima e un po’ svampita – a pochi passi da me. Pochi secondi ed è sparita tra le pieghe della selva.
Dio quanto adoro il bosco.
Mi incammino e ritrovo i miei intenti ad osservare col binocolo degli aironi in volo o forse dei cigni, non lo so, non ci dedico troppa attenzione a dire il vero, ho ancora gli occhi della volpe nella testa.

Ora siamo di nuovo nei pressi del lago, incrociamo più turisti a passeggio ed escursionisti che iniziano il cammino; i bramiti si fanno più radi e affievoliti. Intravediamo già il centro visite del parco e la pista ciclabile ma all’altezza dell’ultimo grande canneto prima dell’asfalto, come a salutarci prima del pranzo, delle cerve fanno capolino per controllare le nostre intenzioni.

Raggiungiamo il centro visite, la ragazza che ci accoglie è molto gentile e disponibile, raccattiamo qualche interessante brochure e ci informiamo sul giro con la barca a remi. Dopo una breve ristoratrice pausa pranzo in pizzeria (vi consigliamo Il Pinguino) l’idea è quella di sfruttare in qualche modo creativo le ore di “inattività” degli animali. Fa un caldo inaspettato (e decisamente preoccupante) per essere autunno e questo non invoglia i nostri amici erbivori.
Bevuti i caffè imbracciamo i remi e saliamo su una vecchia barchetta di legno. Tre Uomini in Barca ma in versione decisamente più fantozziana rispetto al romanzo di Jerome. Fatichiamo non poco a prendere un ritmo e una direzione tra schizzi d’acqua e virate non volute. Il tragitto è incerto ma la meta è sicura: ovviamente puntiamo al pratone che abbiamo potuto ammirare solo dall’alto.

Di bramiti più nemmeno l’ombra ma siamo appassionati e tenaci e quindi anche se non non in linea retta dopo più di mezzora eccoci nei pressi del canneto.
Dietro di noi l’acqua, il sole e altre montagne. Lo spettacolo sarebbe già soddisfacente così ma il lago regala ancora sorprese. Fruscii, scalpitii, rami che si spezzano. Qualcosa è lì dietro a pochi metri e si sta muovendo.
Ci avviciniamo di due insicuri colpi di remi. Desistiamo dall’idea malsana di accostarci ancora di più, siamo già abbastanza vicini e oltre al disturbo della fauna questa volta potrebbe palesarsi anche un finale tragicomico con noi incagliati nelle canne.
Eccolo, fortissimo, violento… una, due, cinque volte, è proprio dietro le canne, fa risuonare il legno della barca come un contrabbasso…
“Non vedo un cazzo!” Mi alzo in piedi. Pessima “idea marinaresca”, la barca dondola e mi risiedo subito. Bramisce ancora e ancora, poi si allontana.
Ci guardiamo tra noi, è ora di tornare in porto col nostro incedere a zig zag.
Frustrati dai troppo distanti e fugaci incontri?
No questa volta decisamente no, le emozioni di un buon animal-trip non passano esclusivamente da gli occhi e da un teleobiettivo.
Delmiele Tasso – Foto Ale Zoc
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