Conoscere il gufo dei ghiacci orientali

Il Litorale è una lingua di terra nell’Estremo Oriente russo, stretta tra il Mar del Giappone e la Cina. Un altrove popolato da animali leggendari, quasi mitici, come rari orsi, la tigre dell’Amur, il leopardo dell’Amur, il cervo mosco siberiano, “una piccola creatura con grandi orecchie, del peso di un bassotto, con le zampe posteriori grosse e sproporzionate che, anziché di corna, è dotato di lunghi canini che sbucano dal labbro superiore come zanne”. Insomma, se esiste un luogo sulla Terra in cui la natura è sempre capace di sorprendere, questo è il Litorale. Sempre qui, tra fiumi e boschi, vive anche il gufo più grande del mondo, il raro gufo pescatore di Blakiston o gufo dei ghiacci orientali (Bubo blakistoni), di cui solo gli indigeni ancora negli ultimi anni del secolo scorso avevano qualche conoscenza più precisa.

Il gufo pescatore di Blakiston

Jonathan Slaght, scrittore e naturalista statunitense, se ne innamora perdutamente e decide di dedicare la sua tesi di dottorato a “questo uccello enorme, grosso quanto un’aquila ma più pennuto e corpulento, una massa arruffata del color dei trucioli di legno, dagli occhi gialli elettrico e con ciuffi sproporzionati sopra le orecchie”, raccontandoci questa avventura in un libro straordinario: I gufi dei ghiacci orientali (in Italia tradotto da Luca Fusari ed edito da Iperborea).

Studiare sul campo il gufo pescatore significa immergersi nel Litorale, vivere il Litorale, una terra vergine, ctonia nella sua essenza, di antichissime foreste e fiumi impetuosi, di acqua e terra, in cui spesso non esistono strade lungo le quali muoversi ma solo fiumi ghiacciati da percorrere in motoslitta accelerando per evitare di sprofondare nelle acque gelide.

Significa anche conoscere ed entrare in relazione con la varia umanità che popola questa terra meravigliosamente ostile: boscaioli, eremiti, ex agenti del KGB, cacciatori, latitanti, uomini inselvatichiti che bevono vodka, etanolo (e persino detergente) e trovano conforto nel calore di pozze d’acque scaldate dal radon radioattivo. Isolati dal mondo, diffidano dello straniero (soprattutto se non porta la barba) che per ragioni incomprensibili ai loro occhi si trova nelle loro terre (e lo studio dell’ornitologia non sempre sembra una motivazione plausibile).

Eppure, superata la diffidenza iniziale, sanno diventare amici preziosi con cui condividere la sorte di un’esistenza ancora regolata da dicotomie primordiali, fame o sazietà, vita o morte, nelle quali una minima deviazione può significare un passaggio repentino da una condizione all’altra: dividere una tenda a 30 gradi sotto zero, dormire in una capanna di tronchi attorno a una stufa di ghisa portata a spalle, svegliarsi nel sacco a pelo coperto di ghiaccio per accendere un fuoco, dividere carne secca avariata, biscotti o lattine.

Tra superstizioni sciamaniche e relitti del Cristianesimo ortodosso, dopo gli iniziali insuccessi e le inevitabili frustrazioni, qualcosa finalmente cambia e quelli che sembravano ad un certo punto obiettivi divenuti irraggiungibili cominciano a prendere concretezza, proprio come gli esemplari catturati e poi subito liberati, come i nidi prima difficilmente trovati poi localizzati senza troppi problemi una volta compresa la natura degli alberi necessari alla nidificazione.

E tutto per un gufo (certo, non un gufo qualunque) di cui inizialmente non si sa quasi nulla, nemmeno distinguere i maschi dalle femmine, di cui si imparano a riconoscere le tracce, si studiano gli areali, le abitudini, si monitorano con gps applicati dopo la cattura i percorsi. Per salvaguardarne l’habitat, difenderne il territorio, perché la perdita definitiva di una sola specie è una perdita definitiva per tutti.

Prof. Gip. Barbatus

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